Sai riconoscere la stupidità in azienda?

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“Le persone intelligenti non riescono a capire facilmente, e ancor meno a prevenire, un comportamento stupido”

“Le persone intelligenti non riescono a capire facilmente, e ancor meno a prevenire, un comportamento stupido” scrive Paolo Iacci e come dargli torto? Soprattutto se partiamo dalla convinzione di essere dalla parte degli intelligenti?

Su questo argomento, la stupidità appunto, abbiamo molti contributi: partendo dal celeberrimo piccolo saggio del sociologo Carlo Cipolla – che nelle sue “leggi fondamentali della stupidità umana” nel 1976 identifica lo stupido nella persona che nuoce agli altri senza ottenere un vantaggio per se stesso o addirittura subendo una perdita – a Giancarlo Livraghi che, in tempi più recenti, afferma che “la stupidità è la più grande forza distruttiva nella storia dell’umanità”.

Ma qui consideriamo sempre un’ottica business e quindi il saggio che ci interesserà di più è quello di Mats Alvesson e Andrè Spicer, che trattano appunto del “Potere e le trappole della stupidità nel mondo del lavoro”, si tratta quindi di una stupidità che non ha nulla a che fare con scarse capacità cognitive, ma piuttosto di una caratteristica funzionale che si trova all’interno delle organizzazioni, ovvero “la tendenza a ridurre la portata del proprio pensiero e a concentrarsi solo sugli aspetti limitati e tecnici del proprio lavoro” oppure “l’incapacità e/o la non disponibilità a far uso delle proprie abilità cognitive e riflessive se non secondo modalità ristrette”.

La possiamo chiamare “stupidità funzionale” ed è quella che certi dirigenti tendono a inculcare nella cultura aziendale pur di evitare obiezioni, intoppi e quindi velocizzare i flussi. Sono i manager che esortano i collaboratori con frasi tipo “tu non devi pensare, devi eseguire“.

Spicer ci spiega che il dipendente che esegue senza proferire parola rende più veloce il processo produttivo e quindi è spesso ben visto dal manager, che non deve discutere o perdere tempo a spiegare i motivi della sua decisione ai collaboratori, ma un lavoratore di questo tipo non porta benefici all’azienda, se non all’interno del suo ruolo ben definito. Non da nessun valore aggiunto a differenza di chi è portato a riflettere su ciò che gli viene ordinato e si prende la briga di commentare, consigliare o anche criticare. Nel secondo caso il processo aziendale rallenta, ma l’intuizione che può arrivare da un confronto comporta un vantaggio. Ne risente il flusso di lavoro, vero, ma il lavoro risulta alla fine fatto meglio, perché ragionato. Quindi c’è una certa “stupidità” che è funzionale e va accolta (è inverosimile che un manager accetti che si contesti ogni sua indicazione), ma questo “yes man” diventa disfunzionale quando presenta distacco nei confronti della società per cui lavora, quando per attenersi al processo scontenta il cliente, quando esegue senza valutare la situazione specifica. Quante volte nella vita ci imbattiamo in questi personaggi che complicano la vita a noi e a loro stessi per seguire la procedura?

Ma se i ragionamenti di Spicer e Alvesson non vi hanno ancora convinti, vi portiamo l’esempio delle organizzazioni del Sol Levante. Il Giappone ha rivoluzionato il mondo organizzativo con il metodo Toyota ed offre spesso lezioni di macroeconomia, eppure ha un grave problema culturale che pochi anni fa ha fatto rischiare il collasso di un’icona del settore manifatturiero come Toshiba in seguito alla scoperta di bilanci “abbelliti” per almeno 7 anni. E che dire della casa automobilistica Mitsubishi Motors andata in crisi per la vicenda dei test truccati sui consumi ?

La radice del problema è stata individuata nei rapporti perversi tra top management, dirigenti di medio livello e tecnici. E’ noto che nella cultura giapponese il termine “no” è praticamente inutilizzato, e che è fatto grave deludere le aspettative dell’interlocutore per cui – e chi ha a che fare con il Far East lo sa – bisogna saper interpretare se la perifrasi che si ottiene in risposta ad una domanda diretta possa essere in realtà un no mascherato da “forse” o “non subito”.

Il modo più delicato per un giapponese di rispondere no è un semplice chotto muzukashii desu ne, cioè “questo [che mi chiedi] è un po’ difficile”, ma se si insiste arrivano fino al massimo delle loro possibilità con una frase considerata già molto maleducata, ovvero “chotto muri kana, “questo è un po’ oltre le mie possibilità”. Alla base di questo non poter dire di noi, c’è comunque una cultura che considera molto grave deludere un superiore. Quindi oltre a non poter dire di no, c’è la precisa volontà di assecondare qualsiasi ordine.

Cosa accadeva quindi nel flusso di comunicazione delle grosse compagnie che abbiamo citato? Il top management stabiliva obiettivi impossibili da realizzare, il middle management non osava obiettare e per paura di scontentare i piani alti, faceva pressione sulle figure tecniche (contabili in un caso, tecnologi nell’altro) perché dichiarassero il falso. Insomma, questo dictat morale di non deludere mai i propri superiori ha prodotto comportamenti irresponsabili che hanno messo in pericolo l’esistenza stessa dell’azienda.

D’altronde è una vecchia storia, come faceva notare Stefano Carrer, corrispondente da Tokio del Sole24h, recentemente scomparso, autore di un celebre articolo su come gli Yes Men affossano le aziende:

Dopotutto, al di là delle differenze di risorse con gli Usa e al di là dell’atomica, non poteva vincere la guerra un Paese dove la Marina tace per molti mesi all’Esercito e allo stesso primo ministro la gravissima sconfitta di Midway per non perdere la faccia…

Fonti:
Carlo Cipolla, "Le leggi fondamentali della stupidità umana" Il Mulino, 2015
Giancarlo Livraghi, "Il potere della stupidità" MA 2008
Paolo Iacci, "L'età del paradosso, perché chiediamo tutto e il contrario di tutto..." Egea, 2019
Mats Alvesson e Andrè Spicer, "Il paradosso della stupidità" Raffaello Cortina ed, 2017
Stefano Carrer, "Lezione Giapponese: così gli Yes Men affossano le aziende" ilSole24h - 18/05/2016